Invito alla lettura: Il cavolo e la carota
Rispetto ad un testo come “Millenni”, questo Racconto di Rocco Cento ha l’indubbio merito della brevità. Solo questo, però. Dopodiché, come riconosce l’autore stesso: <<Leggere questo testo è un’impresa>>.
E ha perfettamente ragione! Vuoi per l’elevato grado di sperimentalismo maccheronico, lingua d’invenzione letteraria che può certo disorientare il lettore contemporaneo, vuoi perché “l’elevazione delle movenze e dei costumi del “volgo” cui mira l’autore avviene, in parte, su contenuti non facili da trattare senza scadere nella volgarità. Si aggiunga il ricorso a forme sintattiche poco consuete nonché l’uso di un linguaggio che mescola neologismi (pochi, per la verità, in questo caso) e arcaismi (tantissimi). Ciò obbliga il lettore a procedere piuttosto lentamente e con uno sforzo di attenzione maggiore del solito. Che cosa significa «scapitare»? Qual è l’etimologia del termine «fuia», la fuggevole ladraccia del vicinato? Come deve essere interpretata la locuzione «armato d’anelli di misura», riferito al cugin-cavallo, ecc..
Un testo, un po’ difficile, certo. Ma tanto difficile quanto piacevole ed affascinante, a partire già da quell’incipit dal sapore ossimorico, “Nell’inverno solare del gelo…” (per via dell’aggettivo “solare” associato alla parola inverno), seguito da una serie di arcaismi, come “nequitoso”, “nudrire”, “propinquo”, “dimoiato”, ecc..
Superata la fatica della chiarificazione terminologica, ecco disvelarsi, ad ampiamente ripagarla, la bellezza di un Racconto, in cui prevale, come scelta stilistica, la vena ironico-umoristica e il cui intento sembra essere quello di parodiare i modelli “alti”, come le Novelle del Boccaccio, cui il Nostro non sembra avere nulla da invidiare.
Ecco allora l’incontro dei due protagonisti: il padrone-cittadino, vestito di tutto punto, con al seguito il cane signorile, un pastore tedesco allisciato e fiero, e il Tal baccano o Tal cafone, figlio a contadini di contadini arcavoli, intento a issar steccati e armare reti e filo spinato, per difendere i tesori del suo orto da quella ladra ovvero quella fuia fuggevole faina del vicinato, che era uso entrare nell’orticello e fare razzia di cavoli e verze, sebbene non per bisognanza ma per livore, invidia, accidia e sacripanza.
Una descrizione dai tratti espressionistici, dalla quale emergono magistralmente i caratteri dominanti dei due personaggi e le differenze tra loro. S’imprime, in particolare, come una sequenza cinematografica pasoliniana, l’immagine del cane che “raspando di naso umido l’intorno”, dell’orto faceva il suo possedimento, marcando il territorio con “minzioni minime, goccioline e spruzzetti su vettovaglie di verdure, verze primamente, fiori della neve…”.
Ed ecco quindi il passaggio – senza l’apparenza di una vera e propria cesura, laddove pure essa c’è – dalla prima alla seconda parte della narrazione, in cui la ladra è dal cugin-cavallo “castigata”, rimanendone a tal punto “ancor più instregata” da tornare volentieri a far razzia nell’orto (per esser nuovamente castigata?).
Notevolissimo il livello di scrittura, in cui, naturalmente, più di ciò che si dice, vale come lo si dice. In questo, Rocco Cento è davvero gran maestro. Mi fermo qui. Altri, non io, sarebbe forse in grado di rintracciare le fonti letterarie e di tradizione popolare del Racconto; altri ancora, di effettuarne una lettura sul piano più propriamente connotativo. Auspicabile, certo, un tale valore aggiunto, ma non indispensabile per godere del piacere della lettura di questo Racconto e apprezzarne la bellezza.
Salvo Iacopino
